“Il mio scopo nel dipingere è sempre stata la più esatta trascrizione possibile della più intima impressione della natura”.
Questa citazione dell'artista americano Edward Hopper, nato nel 1882 a Nyack, vicino New York, ci permette di capire il perché viene definito “Il pittore del realismo americano”. Dire che Hopper è un realista semplicemente perché dipinge ciò che vede è si vero, ma non basta. La fedeltà al reale di Hopper sta infatti nel modo in cui rappresenta ciò che gli sta attorno. Hopper non ha mai avuto l'obiettivo di dipingere la scena americana, quanto più rappresentarla attraverso il suo “io”. È per questo che, nonostante sia un pittore della corrente realistica, alle sue opere viene accreditato un che di “metafisico”.
Quella di Hopper è infatti la provincia americana della quale l'artista riesce a cogliere e a mostrarci l'aspetto più solitario e drammatico. Anche quando Hopper dipinge New York, non la ritrae con i suoi iconici grattacieli e jazz bar, ma la rende una città deserta, piena di solitudine e di malinconia. Hopper mostra nei suoi dipinti luoghi anonimi: bar, strade e camere d'hotel nei quali l'uomo non trova un preciso spazio.
Nonostante ciò, quando guardiamo i dipinti di Hopper, notiamo immediatamente che vi è rappresentata l'America nei suoi elementi più essenziali, strazianti e a volte dimenticati e messi in secondo piano, oscurati dall'ombra degli edifici maestosi che vengono in mente a chiunque quando si parla di America. La solitudine dipinta da Hopper è priva di orpelli e compresenze, ma non per questo meno totalizzante. Le opere dell'artista americano sembrano così unite da un filo conduttore in cui la solitudine si manifesta come una mancanza dovuta ad un'attesa straziante. I personaggi delle opere di Hopper sembrano, come dice il poeta canadese Mark Strand, “non avere occupazioni di sorta”. Vengono così abbandonati ai loro copioni, vittime della propria attesa nella quale, intrappolati, sono costretti a farsi compagnia da soli.
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