Sarò sincera quando qualche tempo fa mi sono ritrovata tra le mani il nuovo romanzo di Alessandro D’Avenia, “L’appello”, mi immaginavo fosse una di quelle tante storie adolescenziali che parlano di ragazzi particolari con vite disastrate che alla fine del romanzo incontrano un avvenire scintillante e luminoso per non si sa che strano caso del destino. Non mi sono mai piaciute quelle storie, troppo banali, i loro personaggi, a tratti insopportabili e la loro scrittura, a dir poco passabile, ma questa volta mi sono voluta buttare in quello che sembrava a tutti gli effetti un altro di quei romanzi mal strutturati. Non so bene il perché, forse per il nome dell’autore a me noto e di cui avevo sentito già varie volte tessere le lodi o per la superficiale idea che la copertina con la costa di quel rosino sarebbe stata splendidamente nella mia libreria. E dopo qualche settimana nelle quali quel libro continuava a sposarsi perfettamente con i colori della mia libreria decisi di prenderlo in mano e, finalmente, di scoprire se quel romanzo fosse veramente uno scialbo racconto adolescenziale oppure fosse un piccolo gioiello nascosto.
In breve la storia narra di un professore di scienze che viene assegnato ad una quinta superiore di un liceo scientifico. La classe è costellata da ragazzi particolari: una ragazza con problemi d’autolesionismo, un mago d’Internet, una ragazza con disturbi alimentari, un rapper che vive in comunità, un pugile che fa gare illegali per mantenere la madre, un poeta appassionato di Rimbaud e con problemi di droga, un ragazzo che fa il rider per mantenere il padre che soffre di depressione e non si alza neanche più dal letto, una ragazza che da tempo ha perso il padre ed una che ha abortito da sola. Insomma sembra che tutta la storia sia già scritta no? Il professore aiuterà i ragazzi facendo loro prendere il volo e, improvvisamente, tutti i loro problemi scompariranno. Tuttavia questo libro non è proprio così, ha un dettaglio in più: il professore è cieco. Omero Romeo è il professore di questa storia, ha 45 anni, madre professoressa di latino e greco al liceo e il padre professore di astrofisica all’università, ha una moglie e due figli ed una malattia genetica che da 5 anni non gli fa più vedere neanche luci ed ombre di questo mondo, ma soprattutto una grande ed immensa fiducia nell’essere umano ed una spiccata autoironia. Essendo cieco ovviamente non può conoscere il volto dei suoi studenti, motivo per cui si inventa un appello speciale: ogni giorno gli studenti si alzeranno, diranno qualcosa di loro e poi andranno alla cattedra per farsi toccare il viso ogni giorno diverso dal professore. I ragazzi ogni giorno di più aprono i loro cuori, le loro storie, i loro dolori, le loro amarezze e le felicità della loro vita da adolescenti, crescendo e cambiando, distinguendo ciò che gli fa bene da ciò che non lo fa, sbattendo la testa e ribattendola una seconda volta, una terza ed una quarta finché comprenderanno che gli unici modi che possono far evolvere l’essere umano sono la socialità, la vicinanza ed una lotta comune. Infatti ben presto i ragazzi si rendono conto che l’appello non lo possono e non lo devono fare solo loro, ma lo dovrebbero fare tutti, da Trieste a Catania passando per Roma e Firenze affinché tutti i professori possano conoscere le vite, i dolori ed i piaceri dei loro studenti e comprenderli più a fondo, disegnandoli per ciò che sono realmente e non per un numero su un foglio bianco con di fianco il loro nome e cognome. Iniziano così manifestazioni ed azioni che porteranno a determinati risultati senza però mai perdere il focus sui veri protagonisti: i ragazzi. Oltre alla trama avvincente la scrittura è fresca, scorrevole e veloce senza però mai sembrare scialba o troppo semplice e riesce efficacemente a passare i sentimenti e le emozioni dei personaggi. Un libro che mi ha inaspettatamente sorpresa e che ci fa comprendere quanto, forse, un sistema scolastico simile a quello di 60 anni fa non va più così bene.
Di Alice Ramboni, Liceo C. Beccaria, 2°C
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